Azzurro Rossoblu. Ceresoli e Ferrari, vita da numeri uno

Azzurro Rossoblu. Ceresoli e Ferrari, vita da numeri uno

di Marco Tarozzi

RINASCITA ROSSOBLU

“Ascoltami, Carlo. Io non cicredo a quello che si dice ingiro. Non può essere che uncampione come te, uno dei “leoni di Higbury”, abbia improvvisamente dimenticato il suo mestiere. Il problema dell'Ambrosiana Inter non è il portiere. Semmai, i limiti sonoin tutta la difesa. Se qualcuno ti dice che sei finito, non credergli. E se vieni con me al Bologna, gli dimostreremo insieme che sbaglia”.

Carlo Ceresoli non aspettava che parole del genere, per ritrovare l'entusiasmo. Di bello, poi, c'era che a dirgliele non era uno qualunque. Era Arpad Weisz, uno che di calcio sapeva come nessuno. E che aveva l'occhio lungo, per le questioni tecniche. Così, Carlo Ceresoli da Bergamo, numero uno a cui solo la sfortuna aveva tolto la gioia di giocare il Mondiale del '34 da titolare, perché si ruppe un braccio durante il ritiro aprendo la strada a Giampiero Combi, fece il grande salto. Dopo 129 partite con l'Ambrosiana Inter, passò al Bologna. E fu un cambiamento vincente.

IL LEONE DI HIGHBURY.

Già nella stagione del debutto, 1936-37, Ceresoli conquistò lo scudetto con Weisz in panchina. Era il primo di una carriera già vissuta da protagonista, ma che fin lì non gli aveva assicurato trofei da mettere in bacheca. In fondo a quell'annata felice, poi, arrivò il grande epilogo della vittoria nel Torneo dell'Esposizione di Parigi, con il Bologna capace di mettere in fila anche il Chelsea, in finale, con un dilagante 4-1. Il “leone di Highbury” si era ricordato subito cosa volesse dire affrontare gli inglesi. Lui lo sapeva bene: quella partita gli era rimasta sottopelle. Era successo dopo la sfortunata esperienza dei Mondiali, che doveva vivere da protagonista e invece guardò da spettatore. Il 14 novembre di quel 1934, l’Italia campione del mondo andò a sfidare gli inglesi nella loro tana, a Londra. Allo stadio di Highbury, quello dell’Arsenal, finì 3-2 per i padroni di casa. Ma fu battaglia vera, nonostante il carattere “amichevole” della partita. Battaglia sportiva, naturalmente: le cronache testimoniano di una delle gare più entusiasmanti della nostra Nazionale, passata alla storia e presa ad esempio per anni dagli appassionati di calcio. Nella quale Carlo Ceresoli si mosse immediatamente da protagonista: l’arbitro, lo svedese Otto Ohlsson, assegnò un rigore agli inglesi alla prima azione d’attacco, dopo un minuto di gioco; il portiere azzurro si trovò di fronte l’ala sinistra Brook e gli parò il tiro. Un minuto dopo Luis Monti si fratturò un piede in uno scontro di gioco, e anche se provò stoicamente a restare in campo, di fatto con le sostituzioni all’epoca non ammesse l’Italia si trovò subito con un uomo in meno. Al dodicesimo l’Inghilterra era già sul 3-0 e pregustava la goleada.

Ma quella fu la partita dei numeri uno, Ceresoli in azzurro e Frank Moss all’ultima apparizione con la maglia della Nazionale inglese: entrambi sfoderarono prestazioni mostruose, l’Italia rimontò ma non fu sufficiente per pareggiare. Gli azzurri uscirono dal campo tra gli applausi di entrambe le tifoserie, e fecero epoca. Ceresoli tra loro.

GIOIA MONDIALE.

Tornò in Nazionale anche dopo, quando già era il numero uno rossoblù. Un’ultima presenza, il 22 maggio 1938 a Genova, nell’amichevole contro la Jugoslavia vinta 4-0. Ma Ceresoli era azzurro anche in Francia, nei giorni del secondo trionfo mondiale dell’Italia. Non era più il titolare del ruolo, ma Vittorio Pozzo non volle fare a meno della sua affidabilità per coprire eventualmente le spalle ad Aldo Olivieri. Non scese in campo, in campo, ma di quel gruppo vincente faceva parte a pieno titolo. Restò al Bologna, rinfrancato e stimolato da Weisz in questa sua “seconda giovinezza”, fino al 1939. E quando se ne andò a Genova aveva già contribuito, con i consigli e con l’esempio, a formare il suo erede: Pietrone Ferrari. Intanto, però, aveva trovato un altro modo per passare alla storia. Perché fu lui il primo vero “numero 1” rossoblù. Perché in quell'ultima stagione di Carlo Ceresoli al Bologna, il 1938-39, venne introdotta per la prima volta la numerazione sulle maglie dei giocatori. Numero uno, di nome e di fatto.

PIETRO IL FEDELISSIMO.

Pietro Ferrari era un ragazzone di ventitré anni, alto un metro e ottanta. Arrivava da Reggio Emilia, e in quella stagione 1936-37 il Bologna gli chiedeva semplicemente di crescere all’ombra rassicurante del “maestro” Ceresoli. Scelsero lui perché con la maglia della Reggiana aveva già brillato, giovanissimo. Promettente, all’epoca, ma già sicuro di sé e capace di una continuità sorprendente, a Ceresoli riuscì a rubare un po’ di segreti prima di diventare titolare fisso, nel 1939. In poco tempo divenne un idolo dei tifosi e finì col collezionare 175 presenze in ben undici stagioni rossoblù. Tradotto in scudetti: tre volte campione d’Italia, nel 1937, nel 1939 e nel 1941, e la soddisfazione di alzare anche la Coppa Alta Italia nel 1946, in piena ricostruzione dopo la tragedia di una guerra mondiale, finalmente alle spalle.

FIAMMATA AZZURRA.

In Nazionale, la chiamata di Vittorio Pozzo arrivò l’1 dicembre 1940. Il Ct stava decidendo a chi affidare la maglia col numero 1 dopo l’addio di Olivieri, e a “Piròun”, come ormai lo chiamavano a Bologna, toccò l’amichevole contro l’Ungheria, finita 1-1. Lui e Griffanti della Fiorentina erano i preferiti, ma l’escalation della guerra risolse drammaticamente la questione della scelta, nel senso che di partite ufficiali, tra il 1942 e il 1945, la Nazionale non ne disputò più. Pietro Ferrari riprese a macinare presenze davanti alla gente di Bologna, fu decisivo nella conquista della Coppa Alta Italia. All’arrivo di Glauco Vanz, di sei anni più giovane, restò a fargli da chioccia nella stagione 1946-47, accettando il ruolo di riserva, per poi tornare a casa, indossando la maglia da titolare nella Reggiana in Serie B e diventandone allenatore-giocatore nell’ultima annata vissuta in campo, il 1947-48.

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